Il vero virus è la paura
Da quando è finita — o forse non è mai finita davvero —
l’epoca del Covid, sembra che non possiamo più rilassarci.
Ogni estate ha il suo virus.
Ogni stagione, il suo allarme.
Ogni notifica, la sua minaccia.
Un anno è la zanzara del West Nile.
Un altro è la febbre Dengue.
Poi arriva il vaiolo delle scimmie, la variante X, l’influenza aviaria, la
nuova SARS, un’infezione sconosciuta in Cina.
E ogni volta lo schema si ripete.
Titoli con la parola “killer”, numeri estrapolati dal contesto, grafici
senza spiegazioni, “casi in aumento” senza dire da dove partono.
E noi?
Noi ci allarmiamo.
O peggio, ci stanchiamo.
Perché anche la paura, se è troppa e continua, diventa
rumore bianco.
Non è che siamo diventati cinici.
È che siamo esausti.
Abbiamo sviluppato una sensibilità iperattiva alla
minaccia, un riflesso automatico che si accende ogni volta che leggiamo
“virus” o “allerta”.
In realtà, ciò che stiamo vivendo è un disordine
collettivo della percezione del rischio.
Quando la paura diventa contenuto
La maggior parte dei virus citati nei notiziari — come il
West Nile o il Monkeypox — non sono emergenze nuove.
Sono malattie note, studiate, sotto controllo sanitario.
Nella quasi totalità dei casi, provocano sintomi lievi o nessun
sintomo affatto.
Ma questo non fa notizia.
Ciò che vende, purtroppo, è la possibilità che un caso su centomila
degeneri.
Così il tono dei titoli cambia.
I dati moderati scompaiono.
Restano solo le parole “boom”, “mistero”, “allerta”.
Non ci viene detto: “Il virus c’è, ma è raro e sotto
controllo.”
Ci viene detto: “Attenzione, potrebbe accadere anche a te.”
È la commercializzazione della paura.
Una narrativa continua che ci vende l’accesso esclusivo al terrore del giorno.
Il cervello sotto assedio
L’allerta sanitaria costante, senza pause né filtri, ci
consuma psicologicamente.
Quando il cervello viene esposto troppo a lungo a segnali di
minaccia, reagisce in due modi:
- Iper-controllo:
ci chiudiamo in casa, ci proteggiamo da tutto, sviluppiamo ansia o
ipocondria.
- Disconnessione:
smettiamo di credere a tutto, perfino alle informazioni utili.
Entrambe sono reazioni di sopravvivenza, ma nessuna è
sana.
Mentre la realtà ci dice che vivere comporta dei rischi — ma
si può convivere con lucidità — la narrazione mediatica ci spinge a credere che
ogni estate potrebbe essere l’ultima tranquilla.
Ma non lo è.
Non viviamo in emergenza continua.
Viviamo in un mondo iperconnesso che ha trasformato la paura in contenuto.
Prevenzione, sì. Panico, no.
Questo non significa ignorare i problemi.
La prevenzione è importante: sapere cosa sono i virus, come si
trasmettono, chi può essere più vulnerabile.
È giusto proteggersi, soprattutto se si appartiene a categorie fragili.
Ma è altrettanto importante proteggerci dal panico
mediatico.
Scegliere quando e da chi informarci.
Spegnere il flusso di notifiche e titoli urlati.
Non cadere nella trappola del “potrebbe accadere anche a me”, ogni singolo
giorno.
Il vero atto di responsabilità, oggi, è filtrare.
Non spegnere il cervello, ma usarlo.
Non vivere con l’ansia in tasca, ma con la consapevolezza.
La calma è contagiosa
Dopo il Covid, siamo più fragili.
Più vigili.
Ma anche più manipolabili.
E allora oggi, più che mai, serve lucidità.
Non ogni virus è una pandemia.
Non ogni titolo è la verità.
Respirare.
Informarsi con calma.
Non confondere “essere aggiornati” con “vivere in allerta”.
Perché anche la calma è contagiosa.
Anche la fiducia si può trasmettere.
E forse la vera cura, oggi, è questa:
non lasciarsi consumare dalla paura di vivere.
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